Ci avevano detto che l’intelligenza artificiale ci avrebbe liberato dalle mansioni ripetitive.
Che avrebbe potenziato le nostre capacità.
Che ci avrebbe lasciato più tempo per creare, pensare, evolvere.
Eppure, per molti, il primo contatto con l’AI è stato un licenziamento, un taglio, una ristrutturazione.
Nel mondo del lavoro, l’intelligenza artificiale è arrivata in punta di piedi. Ma in pochi anni è passata dal supportare all’assumere ruoli, dall’automazione al sostituire intere categorie professionali. Customer care, data entry, copywriting, legal tech, finanza, programmazione… oggi nessun settore è realmente escluso.
Ma l’AI è davvero una minaccia?
O è una nuova collega, con cui dobbiamo imparare a convivere?
La verità, come spesso accade, non è né bianca né nera.
Dipende da come la società, le aziende e le persone scelgono di usarla.
Nel customer service, l’AI gestisce milioni di conversazioni al giorno, con chatbot sempre più empatici, capaci di comprendere linguaggio naturale, analizzare tono ed emozioni.
Nel giornalismo, scrive notizie, riassume conferenze, redige comunicati.
Nel software, genera codice, corregge bug, scrive test.
Nel marketing, crea slogan, post social, contenuti SEO.
Nel mondo legale, analizza contratti, evidenzia clausole, simula scenari.
E l’elenco potrebbe continuare.
Ogni volta che un’AI entra in un processo, cambia qualcosa: tempi, costi, ruoli, aspettative. A volte crea nuove figure professionali, come il prompt engineer o l’AI trainer. Altre volte, purtroppo, ne elimina. Senza preavviso.
Il punto critico è culturale, non tecnico.
Come ci posizioniamo, come professionisti e come società, rispetto a una tecnologia che apprende, scrive, parla, decide?
Il rischio non è solo quello di perdere posti di lavoro, ma di perdere la centralità dell’essere umano nei processi decisionali.
Se ci abituiamo a delegare tutto — dalle mail alla valutazione dei candidati — cosa resterà del nostro giudizio? Della nostra creatività? Della nostra responsabilità?
Serve una nuova etica del lavoro aumentato.
Serve formare professionisti capaci di usare l’AI, guidarla, valutarla, anziché subirla.
Serve una governance che tuteli i diritti dei lavoratori, ma anche una visione nuova della produttività, dove l’essere umano non sia più solo forza lavoro, ma intelligenza relazionale e critica.
La buona notizia?
L’AI non può fare tutto.
Non sa negoziare un conflitto, intuire un non detto, creare empatia, innovare fuori dagli schemi.
Non sa essere… umana.
E se vogliamo restare rilevanti, la strada non è competere con le macchine, ma fare ciò che solo noi possiamo fare: pensare in modo libero, relazionarci in profondità, costruire significato.
Lavorare con l’intelligenza artificiale non deve significare farsi da parte.
Può — se vogliamo — significare fare un passo avanti.
Fonti e riferimenti ufficiali
- World Economic Forum – The Future of Jobs Report 2023
- OECD – AI and the Future of Skills
- MIT Sloan – How AI Is Changing Work
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